Il Tempo della città non è
quello degli esseri umani. È più lungo, ma anche più veloce del
nostro: noi, ad esempio, spesso siamo divorati dai ricordi, Milano i
ricorda li divora.
Quelli
antichi, ma anche quelli recenti. Chi si rammenta, infatti, del
Macondo,
inaugurato il 29 ottobre 1977 in via Castelfidardo all’angolo con
via San Marco?
Per chi era giovane allora, quel
locale fu un mito. Ora, a meno di quarant’anni dalla sua nascita,
può al massimo rientrare nelle leggende metropolitane…
I
14 fondatori, tra cui spiccava Mauro Rostagno, ex esponente di spicco
di Lotta
Continua
successivamente
assassinato dalla mafia, volevano dar vita a qualcosa di diverso, di
originale. E così, dopo aver affittato i 1.800 mq di quello che era
stato di un magazzino di materiale elettrico (e prima ancora una casa
del fascio), battezzarono simbolicamente il loro locale con il luogo
dell’utopia inventato in Cent’anni
di solitudine
da
Gabriel García Márquez, a quei tempi un romanzo di culto che
bisognava aver letto a tutti i costi.
La
sera dell’apertura, come ha raccontato a la
Repubblica
una
delle fondatrici, Guia Sambonet, venne creato un boschetto orientale
con delle piante affittate da una serra, furono posate stuoia e
sacchi di iuta mentre «nella grande sala delle colonne avevamo
costruito un labirinto con lenzuoli trasparenti di cellofan, sospesi
a cavi d’acciaio che lasciavano intravedere solo i piedi della
sagoma sfumata di chi lo percorreva».
Fu
un successo, ma alla fine di quella prima notte, per poterlo
preparare al meglio, il Macondo
chiuse
fino a dicembre. Anche grazie a quella inaugurazione, comunque,
quando riaprì diventò subito un punto di riferimento per un
pubblico assai eterogeneo, come era tipico del Movimento ’77, molto
meno ideologico del ’68. Oltre ai soliti freaks,
ad autonomi e a nuovi soggetti metropolitani, futuri inconsapevoli
yuppies
gironzolavano
in un’atmosfera altrettanto variegata per l’arredamento creativo
e per le numerose iniziative, che oltre ai classici dell’epoca
(corsi di yoga, mercatino dell’usato, conferenze di filosofi e
antipsichiatri) e alla storica, simbolica svendita dei cimeli del
’68, in qualche caso anticipavano le tendenze future come nel caso
del ristorante biologico o dei corsi di Tai Chi Chuan, pratica allora
quasi sconosciuta.
Al
Macondo
passarono
molte facce note, e scegliendone solo una impossibile non citare il
glorioso Allen Ginsberg, uno dei massimi esponenti della Beat
Generation.
Tutto, insomma, filava per il verso giusto, ma un luogo così
alternativo aveva ovviamente attirato l’attenzione della stampa e
dell’opinione pubblica più conservatrice, sempre pronta alla
repressione perché invidiosa dell’altrui libertà (e gioia di
vivere). E l’occasione per scatenarsi gliela diede il convegno
sull’Arte
di Arrangiarsi
che
si doveva tenere nel locale e per il quale al Macondo
venne
l’idea di stampare dei falsi biglietti del tram che facevano
riferimento alle droghe leggere: da una parte vi era scritto “Linee
straordinarie metropolitane” con la frase “Vale uno spino”,
dall’altra “il biglietto è cedibile a chiunque altro stia
rollando”, con riferimento all’utilizzo del biglietto per fare da
filtro.
Uno
scherzo, chiaramente. Ma una signora, trovato il tagliando nelle
tasche del figlio, denunciò il locale per spaccio di spinelli e ciò
provocò l’intervento della polizia che il 22 febbraio 1978 fece
irruzione fermando 600 giovani e arrestando i soci fondatori per il
ritrovamento di minime quantità di hascish.
Il clamore che seguì fece diventare il caso nazionale, e anche per
questo motivo il locale viene chiuso. Bisognava dare un esempio a
tutta l’Italia, far vedere che le leggi si rispettavano e che si
combatteva la droga, e così il Macondo
diventò
il classico capro espiatorio, immolato all’ipocrisia tipica della
borghesia.
Al
suo posto, dopo, si sono succeduti vari ristoranti che non hanno
scritto la storia della città, così come non la scriveranno i
prossimi. Se qualcuno, però, volesse saperne di più, vi consigliamo
di cercare il bel documentario Macondo
a Milano
(2005) in cui il regista Michele Sordillo ne ha ricostruito la storia
inframmezzando immagini d’epoca a interviste.
(Articolo di Mauro Raimondi, 29 ottobre 2013, Tellusfolio).
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