lunedì 21 marzo 2016

IL MACONDO DI MILANO


Il Tempo della città non è quello degli esseri umani. È più lungo, ma anche più veloce del nostro: noi, ad esempio, spesso siamo divorati dai ricordi, Milano i ricorda li divora.
Quelli antichi, ma anche quelli recenti. Chi si rammenta, infatti, del Macondo, inaugurato il 29 ottobre 1977 in via Castelfidardo all’angolo con via San Marco?
Per chi era giovane allora, quel locale fu un mito. Ora, a meno di quarant’anni dalla sua nascita, può al massimo rientrare nelle leggende metropolitane…
I 14 fondatori, tra cui spiccava Mauro Rostagno, ex esponente di spicco di Lotta Continua successivamente assassinato dalla mafia, volevano dar vita a qualcosa di diverso, di originale. E così, dopo aver affittato i 1.800 mq di quello che era stato di un magazzino di materiale elettrico (e prima ancora una casa del fascio), battezzarono simbolicamente il loro locale con il luogo dell’utopia inventato in Cent’anni di solitudine da Gabriel García Márquez, a quei tempi un romanzo di culto che bisognava aver letto a tutti i costi.
La sera dell’apertura, come ha raccontato a la Repubblica una delle fondatrici, Guia Sambonet, venne creato un boschetto orientale con delle piante affittate da una serra, furono posate stuoia e sacchi di iuta mentre «nella grande sala delle colonne avevamo costruito un labirinto con lenzuoli trasparenti di cellofan, sospesi a cavi d’acciaio che lasciavano intravedere solo i piedi della sagoma sfumata di chi lo percorreva».
Fu un successo, ma alla fine di quella prima notte, per poterlo preparare al meglio, il Macondo chiuse fino a dicembre. Anche grazie a quella inaugurazione, comunque, quando riaprì diventò subito un punto di riferimento per un pubblico assai eterogeneo, come era tipico del Movimento ’77, molto meno ideologico del ’68. Oltre ai soliti freaks, ad autonomi e a nuovi soggetti metropolitani, futuri inconsapevoli yuppies gironzolavano in un’atmosfera altrettanto variegata per l’arredamento creativo e per le numerose iniziative, che oltre ai classici dell’epoca (corsi di yoga, mercatino dell’usato, conferenze di filosofi e antipsichiatri) e alla storica, simbolica svendita dei cimeli del ’68, in qualche caso anticipavano le tendenze future come nel caso del ristorante biologico o dei corsi di Tai Chi Chuan, pratica allora quasi sconosciuta.


Al Macondo passarono molte facce note, e scegliendone solo una impossibile non citare il glorioso Allen Ginsberg, uno dei massimi esponenti della Beat Generation. Tutto, insomma, filava per il verso giusto, ma un luogo così alternativo aveva ovviamente attirato l’attenzione della stampa e dell’opinione pubblica più conservatrice, sempre pronta alla repressione perché invidiosa dell’altrui libertà (e gioia di vivere). E l’occasione per scatenarsi gliela diede il convegno sull’Arte di Arrangiarsi che si doveva tenere nel locale e per il quale al Macondo venne l’idea di stampare dei falsi biglietti del tram che facevano riferimento alle droghe leggere: da una parte vi era scritto “Linee straordinarie metropolitane” con la frase “Vale uno spino”, dall’altra “il biglietto è cedibile a chiunque altro stia rollando”, con riferimento all’utilizzo del biglietto per fare da filtro.
Uno scherzo, chiaramente. Ma una signora, trovato il tagliando nelle tasche del figlio, denunciò il locale per spaccio di spinelli e ciò provocò l’intervento della polizia che il 22 febbraio 1978 fece irruzione fermando 600 giovani e arrestando i soci fondatori per il ritrovamento di minime quantità di hascish. Il clamore che seguì fece diventare il caso nazionale, e anche per questo motivo il locale viene chiuso. Bisognava dare un esempio a tutta l’Italia, far vedere che le leggi si rispettavano e che si combatteva la droga, e così il Macondo diventò il classico capro espiatorio, immolato all’ipocrisia tipica della borghesia.
Al suo posto, dopo, si sono succeduti vari ristoranti che non hanno scritto la storia della città, così come non la scriveranno i prossimi. Se qualcuno, però, volesse saperne di più, vi consigliamo di cercare il bel documentario Macondo a Milano (2005) in cui il regista Michele Sordillo ne ha ricostruito la storia inframmezzando immagini d’epoca a interviste.

(Articolo di Mauro Raimondi, 29 ottobre 2013, Tellusfolio).

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