Alexander Alberro
nel primo capitolo “Le contraddizioni dell'arte concettuale”, in "Arte concettuale e strategie pubblicitarie", evidenzia come le multinazionali (come la Philip Morris che
sponsorizzò la mostra “When Attitudes Becom Form” di arte
concettuale nel 1969) fossero favorevoli a questo genere di arte.
Scrive appunto Alberro: <nel mondo delle società multinazionali
degli anni sessanta, pensavano a un'arte ambiziosa non come a un
nemico da far cadere o una minaccia alla cultura dei consumi, ma come
a un alleato simbolico. Davano il benvenuto alla nuova arte perché
percepivano in essa un equivalente della loro stessa ricerca di nuovi
prodotti e nuovi mercati.
Fornire servizi
e manipolare l'informazione divenne il cuore del nuovo paradigma
economico, che Michael Hardt e Antonio Negri hanno opportunamente
definito “informatizzazione”.
L'emergere
dell'Arte Concettuale è strettamente legato a questo nuovo momento
del capitalismo avanzato.
La galleria di
Siegelaub (Seth Siegelaub Contemporary Art) al 16 di West 56 th
Street a New York, chiuse nella primavera del 1966.
Siegelaub prese un appartamento tre 82 nd
Street e Madison Avenue e ricominciò a vendere attuando
una azione pubblicitaria volta a suscitare interesse verso il
mecenatismo di aziende.
In una brochure (dal
titolo Image) da lui realizzata nel '67, evidenziò in cosa
potevano consistere i vantaggi delle aziende che avessero investito
in arte contemporanea:
“Nello specifico,
l'identificazione con l'arte produrrà i seguenti effetti: a)
migliorerà l'immagine della vostra società, rendendo il vostro
pubblico più consapevole di quello che state facendo nella comunità;
b) vi aiuterà a sviluppare una personalità più completa per la
vostra azienda, conferendole una dimensione culturale; c) fornirà un
elemento audace, unico ed eccitante nella presentazione dei vostri
prodotti e servizi; d) promuoverà la positiva accoglienza della
vostra società, dei vostri prodotti e servizi da parte del grande
pubblico, rendendovi più attraenti e dandovi più visibilità nel
mercato”.
In più: “Nel giro di pochi
anni, molta dell'eccitazione associata all'arte sarà esaurita, e
dunque svuotata del suo potenziale in termini di pubbliche relazioni.
È adesso il momento giusto per impegnarsi nel sostegno alle arti e
capitalizzare la miniera di interesse, emozione e buona reputazione
che ne può scaturire”.
La volontà di
abbattere le convenzioni non era soltanto consueta tra gli artisti;
divenne comune - e in numerosi casi necessaria – anche presso i
mercati. Per Siegelaub, ciò significava abbracciare non soltanto la
creatività, ma anche l'imprevisto. Negli anni seguenti questa
divenne per lui più di una strategia; quasi una filosofia, un modo
di pensare, l'idea che scelse di usare per promuovere gli artisti che
rappresentava.
Arthur R. Rose,
il critico che Siegelaub convinse a recensire la mostra al Windham
College, era in realtà lo pseudonimo di un giovane artista
dell'Ohio, Joseph Kosuth. Straordinariamente attento alla scena
artistica, Kosuth era un abile propagandista del proprio lavoro e
aveva compreso il valore delle pubbliche relazioni. Di conseguenza,
era facile incontrarlo nei posti”giusti” mentre promuoveva il suo
lavoro e accumulava quel “capitale mondano” che Bourdieu ha
definito come <spesso necessario per conquistare e conservare la
fiducia dell'alta società, e con essa un rapporto di clientela>,
e dunque anche per costruirsi una carriera artistica. Arrivato
ventenne a New York nel 1965, Kosuth si iscrisse alla School of
Visual Arts e negli anni seguenti organizzò una serie di conferenze,
aprì una galleria, curò mostre, lanciò un giornale studentesco e
lavorò come redattore per Arts Magazine. Nel 1968 aveva già trovato
collocazione alla Scool of Visual Arts e aveva catturato l'attenzione
non solo di importanti critici e collezionisti, ma anche di riviste
popolari come Time e Newsweek. Sempre alle prese con il networking e
apparentemente instancabile, era l'incarnazione del nuovo artista
secondo la descrizione del nuovo artista secondo la descrizione che
ne dava Newsweek a metà del 1968: <oggi il giovane artista è più
simile a un professionista che a un bohèmien>.
Kosuth coltivava
la propria immagine pubblica almeno quanto la sua pratica artistica.
Aveva in parte ereditato il fare da showman di Andy Warhol. Vestito
con abiti doppiopetto da gangster degli anni trenta, con i capelli
ossigenati o tinti di nero a seconda della stagione, sempre pronto a
raccontare storie incredibili sul suo passato, Kosuth aveva
sviluppato una gamma straordinaria di pose e atteggiamenti. Ma la sua
vicinanza alla Pop Art non riguardava solo lo stile nell'atteggiarsi:
si era creato molti legami sociali con la scena che circondava
Warhol, spesso riunita nel retro del nightclub Max's Kansas City;
inoltre, Roy Lichtenstein aveva acquistato alcuni suoi lavori, e sia
Warhol sia Claes Oldenburg lo avevano sostenuto dal punto di vista
critico e, occasionalmente, economico.
Come gli artisti
della Pop Art, e in particolare Worhol, Kosuth aveva evidentemente
compreso l'importanza di ottenere il favore e l'attenzione dei media.
Tra il 1066 e il 1967 organizzò una serie di conferenze ben
pubblicizzate alla Scool of Visual Arts in cui invitò artisti come
Donald Judd, Carl Andre, Ad Reinhardt, Robert Smithson, Sol LeWitt e
Dan Graham, che aveva incontrato a feste e altre occasioni sociali,
per presentare pubblicamente le loro idee e il loro lavoro.
Analogamente, all'inizio del 1968 lanciò e divenne direttore di
Straight, un bollettino d'arte pubblicato dalla Scool of Visual Arts.
In quel periodo Kosuth aprì anche una galleria nell'East Village, la
Lannis Gallery, insieme alla giovane artista Christine Kozlov, che
aveva conosciuto alla Scool of Arts, e a Lannis Spencer. Per essere
una galleria appena aperta e senza alcun budget a disposizione, la
Lannis raccolse un'attenzione mediatica sorprendente: risultato
senz'altro attribuibile alle straordinarie capacità organizzative e
promozionali di Kosuth. Questi trascorreva le proprie serate,
praticamente senza eccezioni, facendo vita sociale al Max's Kansas
City, spargendo la voce sui suoi progetti e sulle attività della
galleria. <L'arte non è più un ambito che solo con grande
pazienza si giunge a padroneggiare> dichiarò a Newsweek in un
articolo sulla nuova arte: <Si tratta piuttosto di fare qualcosa
che nessuno ha mai fatto prima.> Kosuth -artista, critico,
insegnante e gallerista a ventidue anni- stava in effetti facendo
qualcosa che nessuno aveva mai fatto prima. E si assicurava che tutti
quelli che incontrava lo sapessero.
Il modus
operandi di Kosuth era dunque del tutto compatibile con quello di
Siegelaub, e l'importanza della loro collaborazione non sarà mai
sottolineata abbastanza. Entrambi erano pienamente lucidi riguardo al
modo di manipolare e controllare la pubblicità, e di usare i mass
media, e le tecnologie di comunicazione per diffondere l'arte.
Entrambi tentarono di riunire artsti affini per dare vita a un
movimento coerente che fosse facilmente identificabile per i media e,
soprattutto, per i mecenati. Il progetto di Kosuth si era esteso al
di là delle modalità tradizionali, relativamente chiuse in se
stesse, di produzione artistica in favore di una pratica che
comprendeva la promozione delle opere: un progetto ambizioso, che non
avrebbe potuto trovare compimento senza la collaborazione di
Siegelaub.
L'euforia di
Gregory Battcock esprime
bene la convinzione diffusa alla fine degli anni sessanta che la
generazione e la presa di distanza dai tradizionali parametri
artistici avesse un potenziale in termini di critica sociale. In
questo periodo così altamente politicizzato, le trasformazioni
nella prassi artistica, anche quelle degli artisti meno
politicamente consapevoli, erano spesso considerate motivate dalla
considerazione di stare contribuendo a un cambiamento generale.
<Finalmente nell'arte> continua Battcock:
"A rivoluzione che ci capita di intravedere per un attimo al Fillmore o
ascoltando a tarda notte la radio WBAI, o gettando uno sguardo in
luoghi inconsueti e sorprendenti in giro per la città, o guardando
un film di Warhol o durante incontri inaspettati con il sesso o la
metafisica o l'acido o l'erba o semplicemente una persona simpatica:
questa rivoluzione è già qui, nell'arte". "Finalmente vediamo
una mostra che non espone spazzatura, e anzi a dirla tutta non
espone proprio nulla. E se questo non farà uscire di testa tutte
quelle adorabili persone conformiste a cui piace che l'arte abbia un
bel simbolo del dollaro stampato sopra e guardie armate intorno e
biglietterie e cartelli con su scritto TOCCARE o NON TOCCARE e,
pretesa tra le più irritanti dell'arte moderna, una buona dose di
esperienza [allora non so cosa ci riuscirà]. Ciò che battcock non
sembrava comprendere era che i cambiamenti radicali in atto alla
fine degli anni sessanta potevano anche dar luogo a forme nuove e
più di reificazione". Già tre anni dopo, Lucy
Lippard avrebbe sostenuto che nel 1969 l'arte Concettuale
aveva rappresentato una delle prassi più promettenti, radicalmente
nuove e potenzialmente rivoluzionarie nella storia dell'arte del XX
secolo; nondimeno, lamentava: "Le speranze che l'arte
Concettuale sarebbe riuscita a sfuggire alla commercializzazione e
all'approccio rovinosamente “progressista” del modernismo si
sono rivelate in gran parte infondate". Nel 1969 sembrava che
nessuno, nemmeno un pubblico avido di novità, avrebbe
effettivamente speso del denaro, e magari anche molto, per una
fotocopia che faceva riferimento a un evento passato o mai vissuto
direttamente, oppure per una serie di fotografie che documentavano
una situazione effimera, per un progetto destinato rimanere
irrealizzato, per un discorso non registrato; sembrava che questi
artisti fossero quindi per necessità liberi dalla tirannia della
mercificazione e del mercato. Tre anni dopo, gli artisti concettuali
più importanti vendono il loro lavoro per somme importanti sia
negli Stati Uniti che in Europa; sono rappresentati da (e, cosa
ancor più incredibile, espongono in) gallerie di assoluto
prestigio. E dunque, a prescindere dalle piccole conquiste raggiunte
dal processo di smaterializzazione dell'oggetto (opere fatte per
essere spedite via posta, o sotto forma di cataloghi e pagine di
riviste, in primo luogo opere che possono essere esposte senza
grosso dispendio di denaro in un gran numero di luoghi e in ogni
momento), in una società capitalista l'arte e gli artisti rimangono
beni di lusso.
(Tratto dal libro di Alexander Alberro: Arte concettuale e strategie pubblicitarie, Johan e Levi Editore, 2011).
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