giovedì 10 marzo 2016

CONCETTUALISTI: MARXISTI O PAGNOTTISTI?


 
Alexander Alberro nel primo capitolo “Le contraddizioni dell'arte concettuale”, in "Arte concettuale e strategie pubblicitarie", evidenzia come le multinazionali (come la Philip Morris che sponsorizzò la mostra “When Attitudes Becom Form” di arte concettuale nel 1969) fossero favorevoli a questo genere di arte. Scrive appunto Alberro: <nel mondo delle società multinazionali degli anni sessanta, pensavano a un'arte ambiziosa non come a un nemico da far cadere o una minaccia alla cultura dei consumi, ma come a un alleato simbolico. Davano il benvenuto alla nuova arte perché percepivano in essa un equivalente della loro stessa ricerca di nuovi prodotti e nuovi mercati. 
 
Fornire servizi e manipolare l'informazione divenne il cuore del nuovo paradigma economico, che Michael Hardt e Antonio Negri hanno opportunamente definito “informatizzazione”.
 
L'emergere dell'Arte Concettuale è strettamente legato a questo nuovo momento del capitalismo avanzato.
 
La galleria di Siegelaub (Seth Siegelaub Contemporary Art) al 16 di West 56 th Street a New York, chiuse nella primavera del 1966. Siegelaub prese un appartamento tre 82 nd Street e Madison Avenue e ricominciò a vendere attuando una azione pubblicitaria volta a suscitare interesse verso il mecenatismo di aziende.
 
In una brochure (dal titolo Image) da lui realizzata nel '67, evidenziò in cosa potevano consistere i vantaggi delle aziende che avessero investito in arte contemporanea:
“Nello specifico, l'identificazione con l'arte produrrà i seguenti effetti: a) migliorerà l'immagine della vostra società, rendendo il vostro pubblico più consapevole di quello che state facendo nella comunità; b) vi aiuterà a sviluppare una personalità più completa per la vostra azienda, conferendole una dimensione culturale; c) fornirà un elemento audace, unico ed eccitante nella presentazione dei vostri prodotti e servizi; d) promuoverà la positiva accoglienza della vostra società, dei vostri prodotti e servizi da parte del grande pubblico, rendendovi più attraenti e dandovi più visibilità nel mercato”.
In più: “Nel giro di pochi anni, molta dell'eccitazione associata all'arte sarà esaurita, e dunque svuotata del suo potenziale in termini di pubbliche relazioni. È adesso il momento giusto per impegnarsi nel sostegno alle arti e capitalizzare la miniera di interesse, emozione e buona reputazione che ne può scaturire”.

 La volontà di abbattere le convenzioni non era soltanto consueta tra gli artisti; divenne comune - e in numerosi casi necessaria – anche presso i mercati. Per Siegelaub, ciò significava abbracciare non soltanto la creatività, ma anche l'imprevisto. Negli anni seguenti questa divenne per lui più di una strategia; quasi una filosofia, un modo di pensare, l'idea che scelse di usare per promuovere gli artisti che rappresentava. 

Arthur R. Rose, il critico che Siegelaub convinse a recensire la mostra al Windham College, era in realtà lo pseudonimo di un giovane artista dell'Ohio, Joseph Kosuth. Straordinariamente attento alla scena artistica, Kosuth era un abile propagandista del proprio lavoro e aveva compreso il valore delle pubbliche relazioni. Di conseguenza, era facile incontrarlo nei posti”giusti” mentre promuoveva il suo lavoro e accumulava quel “capitale mondano” che Bourdieu ha definito come <spesso necessario per conquistare e conservare la fiducia dell'alta società, e con essa un rapporto di clientela>, e dunque anche per costruirsi una carriera artistica. Arrivato ventenne a New York nel 1965, Kosuth si iscrisse alla School of Visual Arts e negli anni seguenti organizzò una serie di conferenze, aprì una galleria, curò mostre, lanciò un giornale studentesco e lavorò come redattore per Arts Magazine. Nel 1968 aveva già trovato collocazione alla Scool of Visual Arts e aveva catturato l'attenzione non solo di importanti critici e collezionisti, ma anche di riviste popolari come Time e Newsweek. Sempre alle prese con il networking e apparentemente instancabile, era l'incarnazione del nuovo artista secondo la descrizione del nuovo artista secondo la descrizione che ne dava Newsweek a metà del 1968: <oggi il giovane artista è più simile a un professionista che a un bohèmien>.
Kosuth coltivava la propria immagine pubblica almeno quanto la sua pratica artistica. Aveva in parte ereditato il fare da showman di Andy Warhol. Vestito con abiti doppiopetto da gangster degli anni trenta, con i capelli ossigenati o tinti di nero a seconda della stagione, sempre pronto a raccontare storie incredibili sul suo passato, Kosuth aveva sviluppato una gamma straordinaria di pose e atteggiamenti. Ma la sua vicinanza alla Pop Art non riguardava solo lo stile nell'atteggiarsi: si era creato molti legami sociali con la scena che circondava Warhol, spesso riunita nel retro del nightclub Max's Kansas City; inoltre, Roy Lichtenstein aveva acquistato alcuni suoi lavori, e sia Warhol sia Claes Oldenburg lo avevano sostenuto dal punto di vista critico e, occasionalmente, economico.
Come gli artisti della Pop Art, e in particolare Worhol, Kosuth aveva evidentemente compreso l'importanza di ottenere il favore e l'attenzione dei media. Tra il 1066 e il 1967 organizzò una serie di conferenze ben pubblicizzate alla Scool of Visual Arts in cui invitò artisti come Donald Judd, Carl Andre, Ad Reinhardt, Robert Smithson, Sol LeWitt e Dan Graham, che aveva incontrato a feste e altre occasioni sociali, per presentare pubblicamente le loro idee e il loro lavoro. Analogamente, all'inizio del 1968 lanciò e divenne direttore di Straight, un bollettino d'arte pubblicato dalla Scool of Visual Arts. In quel periodo Kosuth aprì anche una galleria nell'East Village, la Lannis Gallery, insieme alla giovane artista Christine Kozlov, che aveva conosciuto alla Scool of Arts, e a Lannis Spencer. Per essere una galleria appena aperta e senza alcun budget a disposizione, la Lannis raccolse un'attenzione mediatica sorprendente: risultato senz'altro attribuibile alle straordinarie capacità organizzative e promozionali di Kosuth. Questi trascorreva le proprie serate, praticamente senza eccezioni, facendo vita sociale al Max's Kansas City, spargendo la voce sui suoi progetti e sulle attività della galleria. <L'arte non è più un ambito che solo con grande pazienza si giunge a padroneggiare> dichiarò a Newsweek in un articolo sulla nuova arte: <Si tratta piuttosto di fare qualcosa che nessuno ha mai fatto prima.> Kosuth -artista, critico, insegnante e gallerista a ventidue anni- stava in effetti facendo qualcosa che nessuno aveva mai fatto prima. E si assicurava che tutti quelli che incontrava lo sapessero. 

Il modus operandi di Kosuth era dunque del tutto compatibile con quello di Siegelaub, e l'importanza della loro collaborazione non sarà mai sottolineata abbastanza. Entrambi erano pienamente lucidi riguardo al modo di manipolare e controllare la pubblicità, e di usare i mass media, e le tecnologie di comunicazione per diffondere l'arte. Entrambi tentarono di riunire artsti affini per dare vita a un movimento coerente che fosse facilmente identificabile per i media e, soprattutto, per i mecenati. Il progetto di Kosuth si era esteso al di là delle modalità tradizionali, relativamente chiuse in se stesse, di produzione artistica in favore di una pratica che comprendeva la promozione delle opere: un progetto ambizioso, che non avrebbe potuto trovare compimento senza la collaborazione di Siegelaub. 

L'euforia di Gregory Battcock esprime bene la convinzione diffusa alla fine degli anni sessanta che la generazione e la presa di distanza dai tradizionali parametri artistici avesse un potenziale in termini di critica sociale. In questo periodo così altamente politicizzato, le trasformazioni nella prassi artistica, anche quelle degli artisti meno politicamente consapevoli, erano spesso considerate motivate dalla considerazione di stare contribuendo a un cambiamento generale. <Finalmente nell'arte> continua Battcock: 
"A rivoluzione che ci capita di intravedere per un attimo al Fillmore o ascoltando a tarda notte la radio WBAI, o gettando uno sguardo in luoghi inconsueti e sorprendenti in giro per la città, o guardando un film di Warhol o durante incontri inaspettati con il sesso o la metafisica o l'acido o l'erba o semplicemente una persona simpatica: questa rivoluzione è già qui, nell'arte". "Finalmente vediamo una mostra che non espone spazzatura, e anzi a dirla tutta non espone proprio nulla. E se questo non farà uscire di testa tutte quelle adorabili persone conformiste a cui piace che l'arte abbia un bel simbolo del dollaro stampato sopra e guardie armate intorno e biglietterie e cartelli con su scritto TOCCARE o NON TOCCARE e, pretesa tra le più irritanti dell'arte moderna, una buona dose di esperienza [allora non so cosa ci riuscirà]. Ciò che battcock non sembrava comprendere era che i cambiamenti radicali in atto alla fine degli anni sessanta potevano anche dar luogo a forme nuove e più di reificazione". Già tre anni dopo, Lucy Lippard avrebbe sostenuto che nel 1969 l'arte Concettuale aveva rappresentato una delle prassi più promettenti, radicalmente nuove e potenzialmente rivoluzionarie nella storia dell'arte del XX secolo; nondimeno, lamentava: "Le speranze che l'arte Concettuale sarebbe riuscita a sfuggire alla commercializzazione e all'approccio rovinosamente “progressista” del modernismo si sono rivelate in gran parte infondate". Nel 1969 sembrava che nessuno, nemmeno un pubblico avido di novità, avrebbe effettivamente speso del denaro, e magari anche molto, per una fotocopia che faceva riferimento a un evento passato o mai vissuto direttamente, oppure per una serie di fotografie che documentavano una situazione effimera, per un progetto destinato rimanere irrealizzato, per un discorso non registrato; sembrava che questi artisti fossero quindi per necessità liberi dalla tirannia della mercificazione e del mercato. Tre anni dopo, gli artisti concettuali più importanti vendono il loro lavoro per somme importanti sia negli Stati Uniti che in Europa; sono rappresentati da (e, cosa ancor più incredibile, espongono in) gallerie di assoluto prestigio. E dunque, a prescindere dalle piccole conquiste raggiunte dal processo di smaterializzazione dell'oggetto (opere fatte per essere spedite via posta, o sotto forma di cataloghi e pagine di riviste, in primo luogo opere che possono essere esposte senza grosso dispendio di denaro in un gran numero di luoghi e in ogni momento), in una società capitalista l'arte e gli artisti rimangono beni di lusso. 

(Tratto dal libro di Alexander Alberro: Arte concettuale e strategie pubblicitarie, Johan  e Levi Editore, 2011).

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