martedì 12 aprile 2016

ARTE POVERA

“PREMESSO CHE
questo libro non si pone come analisi obbiettiva e globale di un fenomeno artistico o di vita, ma cerca di affiancarsi (all'arte o alla vita), come complice delle mutazioni ed attitudini nello svolgersi
del loro divenire quotidiano il libro tende a non risultare obbiettivo, poiché l'obiettività è falsa coscienza

il libro, formato da documenti fotografici e testimonianze scritte, basa i suoi presupposti critici ed editoriali sulla consapevolezza che l'azione critica e la documentazione iconografica forniscono visioni limitate e percezioni parziali del lavoro artistico

il libro, nel momento in cui riproduce la documentazione del lavoro artistico, rifiuta la mediazione linguistica della fotografia.

Il libro, anche se vuole sfuggire al consumo, è un oggetto di consumo
il libro trasforma inevitabilmente il lavoro dell'artista in mercedi consumo e bene culturale, atti a soddisfare le frustrazioni culturali del lettore

il libro suggerisce al pubblico un modo di partecipare ai fatti artistici, ma non lo impone

il libro restringe e deforma, data la sua univocità letteraria e visuale, il lavoro dell'artista

il libro è un documento precario e contingente e vive d'azzardo in una situazione artistico-sociale aleatoria

il libro si offre soltanto come strumento di un'ulteriore esperienza nei confronti dell'arte e della vita

il libro si risolve nella contingenza della raccolta del materiale; domani potrà esserci un altro libro con gli stessi autori

il libro non è stato progettato a priori, ma si è venuto facendo, si è costruito in maniera quantitativamente casuale, nella stessa maniera con cui gli artisti hanno collaborato alla concretizzazione di esso; una collaborazione che, a causa della loro scomparsa, è venuta a mancare con Klein, Manzoni e Pascali

il libro presenta una raccolta di materiale già vecchio

il libro coagula uno stato fluido ed in continuo divenire che è proprio del lavoro in arte

in questo libro non bisogna riflettersi per cercare un valore unitario e rassicurante, rifiutato immediatamente dagli autori stessi, bisogna piuttosto ricercare in esso il mutamento, la contingenza, la precarietà e l'instabilità del lavoro artistico. (premessa del libro, pag. 5-6).


- Animali, vegetali e minerali sono insorti nel mondo dell'arte. L'artista si sente attratto dalle loro possibilità fisiche, chimiche e biologiche, e riinizia a sentire il volgersi delle cose del mondo, non solo come essere animato, ma come produttore di fatti magici e meraviglianti. L'artista-alchimista organizza le cose viventi e vegetali in fatti magici, lavora alla scoperta del nocciolo delle cose, per ritrovarle ed esaltarle. Il suo lavoro non mira però a servirsi dei più semplici materiali ed elementi nayurali (rame, zinco, terra, acqua, fiumi, piombo, neve, fuoco, erba, aria, pietra, elettricità, uranio, cielo, peso, gravità, calore, crescita, ecc.) per una descrizione o rappresentazione della natura; quello che lo interessa è invece la scoperta, la presentazione, l'insurrezione del valore magico e maravigliante degli elementi naturali. Come un organismo a struttura semplice, l'artista si confonde con l'ambiente, si mimetizza con esso, allarga la sua soglia di percezione; apre un rapporto nuovo con il mondo delle cose. Ciò con cui l'artista entra in rapporto non viene però rielaborato; su di esso non esprime un giudizio, non cerca un valore morale o sociale, non lo manipola: lo lascia scoperto e appariscente, attinge alla sostanza dell'evento naturale, quale la crescita di una pianta, la reazione chimica di un minerale, il comportamento di un fiume, della neve, dell'erba e del terreno, la caduta di un peso, si immedesima con essi per vivere la meravigliante organizzazione delle cose viventi. Tra le cose viventi scopre anche se stesso, il suo corpo, la sua memoria, i suoi gesti, tutto ciò che direttamente vive e così riinizia ad esperire il senso della vita e della natura, un senso che implica, secondo Dewey, numerosi contenuti: il sensorio, il sensazionale, il sensitivo, il sensibile, il sentimentale e il sensuoso. Sceglie il direttamente vissuto, non più il rappresentato, fonte questa degli artisti pop, aspira a vivere, non a vedere, si immerge nella individualità perché sente la necessità di lasciare intatto il valore dell'esistenza delle cose, delle piante, degli animali, vuole partecipare alla singolarità di ogni istante per possedere al massimo l'<autonomia> sia della propria identità sia dell'individualità delle cose. Vuole sentire il vitalismo per non sentirsi come individuo vitale. Tutto il suo lavoro tende, di conseguenza, solamente alla dilatazione della sfera del sensibile; non si offre come affermazione, indicazione di valori, modello di comportamento, ma come prova di esistenza contingente e precaria. Le sue opere sono spesso senza titolo: quasi a stabilire un attestato fisico-mnemonico di un esperimento, e non un'analisi o il successivo sviluppo di un'esperienza. La vita, come gli eventi che lo accompagnano, risulta così un tempo di ansiosa spettativa, in cui gli oggetti realizzati non si presentano sotto forma di cose inerti, ma come soggetti stimolanti, parte del mondo, in un momento determinato e determinante, azioni soggettive con cui addossarsi un mondo in cui gli animali, le piante, i minerali e gli uomini si muovono in modo autonomo. È evidente però che finchè si considera l'aspetto descrittivo, l'uomo, i minerali, gli animali e i vegetali hanno poco in comune; eppure tutti questi sistemi funzionano in modo simile, legati come sono a processi comuni di trasformazione. Per questo motivo l'artista, insieme all'ecologo, al biologo, allo scienziato, si interessa al comportamento dell'animato e dell'inanimato, rinuncia alla descrizione e alla rappresentazione dell'aspetto esteriore della natura e della vita (siamo pure essi mass-media) e prende in considerazione gli aspetti particolari: anche quelli offerti dai microorganismi, (poco appariscenti, ma molto attivi). Si interessa di collocare nella giusta prospettiva i fatti biomorfici ed ecologici minori, rispetto a quelli maggiori, più appariscenti ma relativamente inerti,; e con l'apparente banalità dei dei fatti naturali e vitali ritorna alla meraviglia. Così riscopre la magicità (delle reazioni e composizioni chimiche), l'inesorabilità (della crescita vegetale), la precarietà (della materia), la falsità (dei sensi), la violenza (dei fatti naturali-deserto, lago salato, mare, neve, foresta); l'instabilità (di una reazione biofisica), si scopre così come strumento di conoscenza in funzione di una maggiore acquisizione apprensiva della natura. Parimenti riscopre il suo interesse in se stesso. Abbandona la mediazione linguistica dell'immagine per vivere d'azzardo in uno spazio aleatorio. Trova insopportabile considerare l'arte come apportatrice di valori anticipatori e si adotta per scoprirsi. Rifiuta la parte del <vate>, perché diffida del padrone culturale (artista, intellettuale, ecc.) che suggerisce al servo (spettatore, pubblico, ecc.) un modello di valore. Esce dagli spazi chiusi delle gallerie e dei musei (a volte, nonostante tutto, rientra), scende nelle piazze, attraversa foreste, deserti, campi di neve, per stimolare un intervento partecipativo. Distrugge la sua <funzione> sociale, perché non crede più nei beni culturali. Nega la fallacia moralistica del prodotto artistico, artefice della dimensione illusionistica della vita e del reale. Crede solo nella propria esperienza personale mentre il suo rapporto con il mondo non avviene più attraverso le immagini analizzate e manipolate (fumetto, cinema, fotografia, ecc.) e le cose strumentalizzate a discorso (materia <per>, gesto <per>, azione <per>), ma con le immagini e con le cose; si immedesima in esse, sino a renderle parte di se stesso, sue propaggini biologiche. Così la sua disponibilità è totale. Accumula continuamente volere e non volere, scegliere e non scegliere; si trova cioè in un tipo di vita che supera la formulazione di mille esperienze. Assumendo se stesso quale unico strumento di interrogazione e stimolazione, si inserisce così in un mondo per lo meno classificabile e organizzabile. Adattandosi per non assimilarsi, fa un salto dalla sua <naturalità> e sfugge di continuo dalla dimensione acquisita.
Abolisce la sua parte di artista, intellettuale, pittore o scultore, e riimpara a recepire, a sentire, a respirare, a camminare, ad intendere, ad usarsi come uomo. Naturalmente imparare a muoversi, e ritrovare la propria esistenza non significa mimare o recitare, compiere nuovi movimenti, ma usare se stesso come materiale continuamente plasmabile. Di conseguenza: impossibilità a credere nel discorso per immagini, nella comunicazione di nuove informazioni esplicative e didattiche, nelle strutture che impongono una regolarità, un comportamento, una sintassi, che si piegano ad un discorso moralistico industriale. Allontanamento quindi dagli archetipi esistenti e continuamente ricreantesi, totale avversiane al discorso e aspirazione all'afasia, all'immobilità, per una progressiva identificazione di coscienza e praxis.

Prime scoperte di questa spoliazione sono il tempo finito ed infinito della vita; l'opera ed il lavoro che si identificano con la vita; la dimensione della vita come durata senza scadenza; l'immobilità come possibilità di uscire dalle circostanze contingenti per immettersi nel tempo; l'esplodere della dimensione individuale come comunione estatica e simpatetica con la natura; l'incoscienza come sistema di conoscenza del mondo; la ricerca dei turbamenti psicofisici per una vita plurisensitiva e plurilineare; la perdita di identità con se stessi, per un abbandono del riconoscimento rassicurante, che ci viene continuamente imposto dagli altri e dal sistema sociale; l'oggetto-soggetto come presenza fisica continuamente cangiante, come prova di esistenza che diventa continuità, caos, spazio e differente temporalità. <L'arte diviene>, dice Cage, <una sorta di condizione sperimentale in cui si sperimenta il vivere>. Fare arte allora si identifica con la vita ed esistere assume il significato di reinventare ogni istante una nuova dimensione fantastica, politica, estetica, ecc. della propria vita. L'importante è non giustificarsi o riflettersi nel lavoro o nel prodotto, ma vivere come lavoro, stupirsi per conoscere il mondo, essere disponibili a tutti i fatti della vita (la morte, l'illogico, la follia, la casualità, la natura, l'infinito, il reale, l'inreale, lo sviluppo, la simbiosi). Accettando infatti l'ideologia della vita ci si può esaltare sia per l'infinito che per la contingenza della vita, si può vivere la morte e morire la vita, ragionare di pazzia, e impazzire di ragione. Col pensare e percepire, fissare e presentare, sentire ed esaurire la sensazione in un evento, in un fatto, in un'idea, in un'azione, ognuno può allora diventare linguaggio ed esserlo, con i suoi gesti, le sue azioni, il suo corpo, il suo territorio, la sua memoria, la sua realtà quotidiana e fantastica.

Comunicare con le persone e le cose vul dire allora essere in comunione estatica e simpatetica col mondo, senza porsi il problema se la comunicazione dei valori, l'arte, il fare arte, siano un vivere iperuranico.

L'arte viene così a porsi come possibilità nella materia (vegetale, animale, minerale e mentale); la propria dimensione che si identifica col conoscere e il percepire, diventa <un vivere in arte> quale esistenza fantastica in continua variazione con la realtà quotidiana, che si contrappone al fare dell'arte, quale risultante dell'atteggiamento dell'arte, dalle ricerche visuali alla pop art, dalla minimal alla funk art.

un fare dell'arte, quello dei pop, op, minimal e funk artisti, che si dimostra attento non ad un intervento, ma ad una interpretazione della realtà, un discorrere sulle immagini che tende alla chiarificazione e alla critica dei sistemi di comunicazione (fumetto, fotografia, mass-media, oggetto-produzione tecnologica, struttura micropercettiva, ecc.). un fare dell'arte come critica delle immagini popolari ed ottiche che collabora alla chiarificazione del sistema sociale, ma blocca l'energia dirompente della vita, della natura, del mondo, delle cose e svuota i significati sensori di qualsiasi lavoro; un fare dell'arte come intervento che si attua attraverso lo schermo intellettualistico della lettura critico-storica dell'immagine pubblicitaria, fotografica, oggettuale, psicologica strutturale, percettiva per addomesticare in schemi prefissati la vitalità del reale quotidiano; un fare dell'arte che si muove all'interno dei sistemi linguistici per rimanere linguaggio, atto a vivere così nel continuo isolamento, un fare dell'arte come cleptomania culturale che vive sull'assunzione delle cariche eversive degli altri linguaggi (politica, sociologia, e tecnologia); un fare dell'arte, infine, come linguaggio separato che specula sui codici e sugli strumenti del comunicare, per vivere in una dimensione di esclusività e riconoscibilità che lo rende classista ed aristocratico, atto a scalfire l'insieme delle sovrastrutture senza intaccare la struttura naturale del mondo.

All'opposto: il procedere asistematico della vita, che diviene contemporaneamente, tempo, esperienza, amore, arte, lavoro, politica, pensiero, azione, scienza, vivere quotidiano, povero di scelte e di assunzioni, se non contingenti e necessarie; un vivere come espressione di esistenza creativa, politica operativa, mentale.

Là un fare del lavoro, dell'arte, del pensiero, dell'amore, della politica, e un vivere complesso che si lasciano strumentalizzare dalle concatenazioni del sistema, qui un vivere nel lavoro, nell'arte, nel pensiero, nell'amore, nella politica, privo di costanti riconoscibili, disorientato, infinito, non deducibile, data l'indeterminatezza del ciclo evolutivo della realtà quotidiana. Vivere nel lavoro, nell'arte, nella politica, nella scienza come libero progettarsi legarsi al ritmo della vita per un esaurimento, immediato e contingente, del vissuto nell'azione, nel fatto e nel pensiero.

Nel primo caso un essere, vivere, lavorare, fare dell'arte, della politica, <ricchi> che interrompono la catena del casuale per mantenere in vita la manipolazione del mondo, un tentativo di conservare anche <l'uomo ben dotato di fronte alla natura>, nel secondo una vita, un lavoro, un'arte, una politica, un agire, un pensare<poveri>, impegnati con l'inscindibilità di esperienza e conoscenza, con l'evento comportamentistico e mentale, con la contingenza, con l'infinito, con l'astorico, con la catena delle motivazioni individuali e sociali, con l'uomo, con l'ambiente, con lo spazio, con il tempo, con la situazione sociale... L'intenzione dichiarata, di gettare alle ortiche ogni discorso, univoco e coerente (la coerenza è infatti una caratteristica della concatenazione del sistema), l'esigenza di sentire la vita in continuo procedere, la necessità, dettata dalla natura stessa, di avanzare a salti, senza poter cogliere con esattezza i confini che presiedono alle modificazioni. Ieri, dunque, una vita, un'arte, un esistere, un manifestarsi, un manipolare, un essere politica, involuti perché basati sull'immaginazione scientifica e tecnologica, sulle sovrastrutture altamente specializzate della comunicazione, sui momenti segnici; una vita, un'arte, un manifestarsi, un manipolare, categoriali e classisti, che, separandosi dal reale, come atti speculativi, isolano il linguaggio artistico, politico, comportamentistico, al fine di porlo in situazione concorrenziale con la vita; una vita, un'arte, una politica, un manifestarsi, un manipolare metaforici, che attraverso gli agglomerati e le collazioni, riducono la realtà a fantasma; una vita, un'arte, una politica, una manipolazione, frustrate, come ricettacolo di tutte le impotenze reali ed intellettuali della vita quotidiana; una vita, un'arte, una politica moralistiche, in cui il giudizio si contrappone, imitando e mediando il reale, al reale stesso, con una prevaricazione dell'aspetto intellettualistico su ciò che realmente si vuole. Oggi vita o arte o politica che trovano nell'anarchia e nel continuo nomadismo comportamentistico il loro massimo grado di libertà per una espressione vitale e fantastica; vita o arte o politica, come stimolo a verificare continuamente il proprio grado di esistenza mentale e fisica, come urgenza di una presenza che elimini la manipolazionedella vita, per ricondurre innanzi la individualità di ogni azione umana e naturale; un'arte innocente o una vita meravigliante o una politica più spontanea che precedono il conoscere, il ragionamento, la cultura, che non si giustificano, ma vivono nel continuo incantesimo e orrore della realtà quotidiana; una realtà quotidiana appresa come entità stupefacente, orripilante, poetica, come presenza fisica mutante e mai allusiva all'alienazione.

Così l'arte, la vita, la politica povera non sono apparenti o teoriche, non credono nel loro <mettersi in mostra>, non si abbandonano nella loro definizione, non credono neppure nella vita, nell'arte, nella politica povera, non hanno come obiettivo il processo di rappresentazione della vita; vogliono solo sentire, conoscere, agire la realtà; consapevoli che ciò che importa non è la vita, il lavoro, l'azione, ma la condizione in cui la vita, il lavoro e l'azione si svolgono.

Un momento che tende alla decultura, alla regressione, al primario e al represso, allo stato prelogico e preiconografico, al comportamento elementare e spontaneo, un tendere agli elementi primigeni della natura (terra, mare, neve, minerali, calore, animali) e della vita (corpo, memoria, pensiero) e della politica (nucleo famigliare, azione spontanea, lotta di classe, violenza, ambiente).
La realtà, di cui ogni giorno si partecipa, è nella sua piatta assurdità un fatto politico, è più reale di qualsiasi elemento riconoscibile intelletualisticamente; così l'arte, la vita, la politica povera, come la realtà, non rimandano, ma si offrono, autopresentandosi, si presentano allo stato di essenza.

Non esistendo l'arte o la vita o la politica come antità distinte e finite, il lavoro artistico, vitale e politico si offre in una dimensione temporale talmente avvertibile che si stenta a riconoscerlo, scomposto ed incoerente, irregolare ed ubiquitario, finito ed indeterminato, personale ed impersonale. Il fatto<appreso> conduce solo ad un allargamento dell'esperienza, non divaga con elementi ambigui e polisensi, è informazione allo stato puro. Non importa se i fatti, le azioni, le cose che ne risultano acquistano una particolare forma o aspetto, se rispondono o meno alle aspettative precedenti, poiché l'energia, l'idea, il fatto, la spinta eversiva, l'entità attiva, la dimensione naturale o umana o politica o artistica presentati non contengono programmi, non seguono una storia, sono solamente le presentazioni di un termine di vita, non accettano relazioni, non rappresentano, ma presentano.

Ogni cosa o fatto o comportamento vivono nel discontinuo, mettono al bando lo studio, l'analisi, la critica del e nel sistema, si presentano solo come elementi del conoscere concreto. L'universo del loro esistere è finito ed infinito, si adatta al materiale, all'ambiente, al momento. La carica eversiva e vitale deriva dal fatto che l'azione, l'entità e il comportamento realizzati, non dialogano con le cose, ma mediante le cose ed espongono l'attitudine dell'esecutore, attraverso la scelta che egli opera in un numero limitato o illimitato di possibili eventi, azioni o idee. L'esecutore così, conscio del carattere labirintico e circolare del suo agire, insegue continuamente una nuova dimensione artistica, politica e comportamentistica, si libera degli stati emotivi, mentali e sociali come di pelli continuamente rinnovantesi, rimane nel tempo e nello spazio continuo della realtà; dove il lavoro non è che una prova di vita e una dimostrazione della propria partecipazione al mondo. Una presa sul mondo tanto violenta che appare inconoscibile, perché sgretola la realtà e non offre garanzie; una percezione del dell'imprevedibile che, non essendo ancora la telepatia un sistema affermato di comunicazione, si riduce a fisicizzare l'idea, la coscienza, l'apprensione della situazione mentale sociale e naturale; un'esperienza tradotta in materia, comportamentistica o fattuale, dell'apprendimento; naturalmente non una fisicizzazione vitalistica od orgastica, ma <ideologica e mentalistica>; uno spaesamento fantastico e politico della nostra contemporaneità quotidiana che colloca l'esecutore alla convergenza di esperienza e lavoro, di esperienza e azione, di esperienza e comportamento, rendendolo il vero protagonista del fatto, per inserirlo nell'attualità della vita. (Celant pag.205-300).


LO ZOO. TORINO FINE DEL XX SECOLO (SI PREPARA L'EPOCA DELL'ACQUARIO):

noi non lavoriamo per gli spettatori, siamo noi stessi attori e spettatori, fabbricanti e consumatori; tra noi che si riesce a lavorare insieme c'è un rapporto diretto, percettivo e istantaneo, non c'è giudizio a posteriori e non c'è critica a posteriori. Quando voi vedete, sentite e fiutate uno spettacolo fatto dallo Zoo, quello che voi credete di capire sarà solo la corteccia, l'involucro, ma non saprete mai cosa è successo finchè non sarete attori e spettatori al di qua delle sbarre.

Vogliamo dire per concludere che è inutile continuare a predire la fine dell'arte. L'arte è finita da cinquant'anni. Basta con questa lagna, l'arte è una parola.

Arte vuol dire saper fare le cose, quelli che sanno fare sono da tempo gli architetti, i designers, i tecnici e i politici. Noi non siamo artisti e basta! Noi alla parola arte possiamo sostituire la parola qua-qua, fare la voce di gola, come per imitare le oche, così, perché ci siamo trovati in dieci che mentre discutevamo e il discorso stava slittando ed impantanandosi ci siamo messi tutti a fare qua-qua-qua e se qualcuno ci chiederà che cosa facciamo, (finchè non diventerà di moda) gli risponderemo che facciamo qua-qua.

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